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Mangiare nelle taverne medievali – Rosella Omicciolo Valentini

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Tra cibo, vino e giochi

Si sa, per vivere l’uomo ha bisogno di mangiare. Ma si sa anche che ancor più forte è il suo bisogno di bere. Acqua, naturalmente, l’acqua “utile et humile et pretiosa et casta” di San Francesco, l’acqua da cui il nostro corpo è composto in altissima percentuale, l’acqua senza la quale tutto si dissecca e muore, l’acqua che delle bevande è quella più naturale e indispensabile. E tuttavia il bisogno di bere può trasformarsi in piacere, un piacere che non dipende solo dal liquido ingerito ma, oltre che dal modo o dal luogo, anche dalle persone con cui lo si beve.

Nell’Occidente, grecizzato prima e romanizzato poi, infatti, il vino era considerato la componente principale non solo del symposium, il rito del bere insieme, ma anche del banchetto aristocratico, della cui ritualità costituiva un indispensabile elemento. Uso passato poi al Medioevo, quando il vino entrò a far parte anche dell’alimentazione degli strati più bassi della popolazione di cui, per quanto infima fosse la sua qualità, costituiva un importante integratore alimentare. Le sue riconosciute virtù igieniche e terapeutiche, poi, ne estendevano il consumo anche alle donne – partorienti incluse – agli adolescenti, agli ammalati. A tale scopo quindi, rientrava a buon diritto anche nelle diete ospedaliere e persino – e la Regola di San Benedetto ne è buona dimostrazione – in quelle monastiche di cui costituiva anche elemento essenziale di nutrimento e ristoro.

La comune, ricorrente raccomandazione, infatti, per tutti coloro che ne consumavano e, a maggior ragione per le donne, i giovinetti. i religiosi, riguardava essenzialmente la misura. Ad esser soprattutto condannati erano quindi gli eccessi e, naturalmente, la frequentazione dei luoghi deputati al consumo incontrollato di questa bevanda utile e pericolosa insieme: la taverna.

Perché, se il consumo del vino nel Medioevo coinvolgeva, con le ovvie distinzioni di prezzi e qualità, un po’ tutti i ceti sociali, interessava soprattutto le numerose taverne esistenti all’interno delle città o disseminate lungo le vie di comunicazione.

Di taverne, celle, osterie era costellata infatti l’Europa medievale: da quelle lungo le strade stagionalmente percorse da forestieri, mercanti, viaggiatori, soldati, a quelle cittadine, distribuite lungo le strade e nei mercati, tra banchi di carne e di frutta, di panni e altre merci, e affollate da salariati, venditori ambulanti, servitori. E poi ancora mendicati, imbroglioni, giocatori di professione e bari; ma anche mercanti e cittadini dei ceti più elevati, che non disdegnavano bere un buon bicchiere di vino, meglio se in compagnia. In molte di esse non solo si vendeva vino, ma si servivano cibi di grande semplicità atti soprattutto a stimolare il bisogno di riempire con frequenza il bicchiere e, addirittura, si approntavano giacigli più o meno improvvisati per la notte. Ma poiché frequentemente vi si praticava il gioco e si esercitava la prostituzione, erano luoghi comunemente ritenuti di malaffare. Per questo le taverne erano talora costrette a trasferirsi dalle prescrizioni volte a tutelare luoghi pubblici o religiosi; e tuttavia, quasi sempre, i divieti ad esse relativi, come del resto le norme che regolavano l’esercizio dell’attività, gli orari di apertura durante il giorno e la notte, la somministrazione di cibi, venivano tranquillamente disattesi.

Intorno alle taverne ruotava dunque una vita intensa: vi si mangiava, si beveva, si giocava, si fornicava, si trascorreva il tempo dello svago e del riposo, si prestava orecchio alla circolazione delle notizie e alle conversazioni degli artisti e dei mercanti, si intrattenevano relazioni sociali, si organizzava la protesta, si cercava un’alternativa al proprio mondo. Di taverne parlano infatti, fra gli altri, Benedetto Varchi e il Lasca, l’Ariosto, il Pulci e il Guicciardini; frequentatori di osterie saranno, come già lo erano stati Cecco Angiolieri, il Sacchetti e Folgòre, anche il Magnifico Lorenzo e Galileo, Machiavelli e Michelangelo, che ce ne hanno lasciate testimonianze in prosa e in rima.

In questo mondo rutilante e colorato, sordido e affascinante, denso di aromi e di afrori, ci introduce con garbo e misura Rosella Omicciolo Valentini, procedendo sulle strade e attraversando le città non solo italiane del Medioevo. Il suo richiamo ai testi è costante, l’informazione accurata e puntuale, la scrittura precisa e accattivante.

Ancora una volta, infatti, l’autrice si cimenta con un argomento a lei assai caro oltre che familiare. Ci ha infatti già regalato un testo, Mangiare medievale, interessante e originale nella proposizione di ricette, europee e non, dell’epoca, tutte da lei sperimentate e dosate nei vari ingredienti. Oggi presenta questo lavoro che, costruito intorno all’interessante “ricettario” delle antiche taverne da lei già pubblicato, si arricchisce rispetto alla prima stesura di vivissimi e coinvolgenti squarci di vita dell’epoca, tutti ruotanti intorno alle taverne, alle osterie, alle locande. Un Medioevo a tavola, dunque, non “immaginario” o “immaginato” (come quello che oggi troppo spesso ci viene proposto dalle numerose sagre, feste, cene intitolate a quel periodo e che tuttavia con esso e con la sua cultura e civiltà poco hanno a che vedere), ma fedelmente ricostruito nella sua realtà storica oltre che nei sapori e nei profumi.

In viaggio, dunque, verso la taverna e le sue delizie terrene: Rosella ci fa da guida.

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